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Tra Ottobre e Marzo

Tra Ottobre e Marzo

di Valeria Aleandri

Due ragazzi. Primi di Marzo.

Il primo traffica con lenzuoli e laccetti di scarpe, legando gli angoli di una coperta alla maniglia della porta, ad un vecchio chiodo, all’amplificatore sullo scaffale, alla manopola del cassetto; crea un tetto che sovrasta mollemente il materasso trascinato con fatica al centro della stanza, su cui la seconda ragazza sta gettando alla rinfusa i cuscini facendo avanti e indietro tra la camera da letto e il salone.

Insieme fissano altri teli con delle mollette per fare le porte, lasciando un piccolo passaggio per la gatta, che altrimenti si sarebbe sicuramente messa a miagolare rivendicando la propria autonomia di spostamento.

Finiscono l’opera quando sono ai due lati opposti della capanna, e con un lieve sorriso vi strisciano dentro, coprendosi lentamente con la trapunta.

Aspettano in silenzio, guardando l’ormai familiare soffitto indaco fare su e giù, mosso dallo spiffero d’inverno che ancora si ostina a passare prepotente anche dalla finestra chiusa, aspettano con pazienza che il ricordo della prima costruzione del loro rifugio si faccia strada tra i pensieri recenti e la routine degli ultimi giorni, distendendo loro il viso in un’inespressività carica di calma. La ragazza alza una mano rossa e rovinata dai geloni, sfiorando delle stelle immaginarie disegnate sul lenzuolo, pronta a riassaporare in pochi istanti la magia di quella prima volta.

Il ricordo. Fine Ottobre.

“Se vuoi posso farti un massaggio.”

“Tranquilla, non preoccuparti…”

Il ragazzo si ritrae, un po’ impacciato, mentre lei cerca di agguantargli il braccio e farlo stendere. “Dai, ti giuro che sono capace.”

“Eh, e io che ne so?” Il ragazzo ridacchia, la prende in giro sottilmente mentre corre a rifugiarsi sotto la capanna costruita in mezzo al salone. È la prima volta che ne fa una con lei, lei che adesso inciampa nelle coperte finendo a faccia avanti sul materasso nel tentativo di stargli dietro.

Si rialza con le sopracciglia corrugate in una smorfia interdetta, e scoppia in quella sua risata singhiozzante che le prende quando è imbarazzata.

Il ragazzo si lascia convincere dalla faccina ostentatamente triste che lei ha messo su, e si sdraia.

Durante il massaggio, più volte scoppia a ridere per il solletico, fino a che la ragazza non trova un punto, tra la scapola e la spina dorsale, che al sol toccarlo gli riapre un dolore contratto e lo fa sobbalzare con un gemito.

“Rilassati.” Smette per un attimo di tastargli la schiena, poi riprende più dolcemente.

“Devi pensare di essere come l’impasto del pane, e che il mio dito lo trapassi, oppure di essere un nodo che toccandolo si scioglie”

“Sì, ci provo.” Cerca di sembrare tranquillo, ma la voce è ancora mutata dal fastidio.

“Bene. Sai, spesso i dolori alla schiena sono dovuti a delle emozioni che non siamo riusciti a lasciarci alle spalle. Così ci sono rimasti dentro, alle spalle. I massaggi alcune volte le liberano, e ci sono alcuni che scoppiano a ridere, o a piangere.”

“Ma dai?” Stavolta la domanda ha perso il tono di sfottio iniziale.

“Sì, te lo giuro.”

La ragazza finisce il massaggio, e il ragazzo si rimette seduto a fatica, ancora indolenzito, e sfiorando con la testa il soffitto, si impone: “Adesso cerco di rilassarti io. Non sono bravo con i massaggi, ma vediamo cosa posso fare.”

Si sposta, poggia la schiena al divano, incluso nella capanna, allarga le gambe e ci mette un cuscino sopra. “Sdraiati a pancia in su poggiando qui la testa.”

Lei esegue, e sente le mani del ragazzo scendere dall’alto sulla sua testa, fino a che non è tutta compresa tra le sue dita.

“Adesso chiudi gli occhi, e rilassati completamente. Visualizza con la mente uno sfondo blu. Ma non blu profondo come un cielo, piuttosto opaco come una tela, ma compatto. Lo vedi?”

“Sì, ma non riesco a concentrarmici per tanto tempo.”

“Questo basta. Ora c’è un puntino al centro della tela, ed è nero.”

“C’è un puntino.”

“Continui a vedere il puntino? Oppure l’immagine è cambiata?”

“Si sono scambiati di posto. Lo sfondo è nero e il puntino blu.”

“Va bene. Perché è nero?”

“Perché è notte.”

Nel mentre, il ragazzo toglie le mani da sotto la testa e le massaggia il torace, soffermandosi tra le due clavicole e premendo piano.

“E la notte ti piace?”

“Dipende, a volte è bellissima e a volte fa paura.”

La ragazza risponde brevemente, perché più cerca di rilassarsi più i muscoli facciali non l’assecondano e la costringono a frasi concise, le impastano la bocca e le guance.

 “Perché fa paura?”

“Perché è nera.”

“E il nero ti fa paura?”

“No, c’è anche altro. Te l’ho detto, non riesco a concentrarmi su un’immagine fissa.”

“Non fa niente, cosa vedi?”

“Vedo una mia amica.” La voce si rompe, scende una lacrima.

“Cosa ti ricorda quest’amica?”

“Adesso sono più di una. La frustrazione.”

“Ti senti frustrata?” Preme un po’ più forte, come cercando un varco tra la gola e il petto. La ragazza è ormai presa dai volti che si vede davanti; le labbra le si risvegliano, e vi si snoda attraverso una voce arrochita dai ricordi.

“Sì. Non ho tempo. Loro nemmeno. Ma io non riesco a vivere. Loro sì.”

“Cosa vuol dire che non vivi?” Le rimette le mani sotto il capo, asciugandole con i pollici le gocce che le invadono il volto.

“Che non finisco le cose, che vorrei fare tutto e non concludo niente. Che non ho tempo e ho paura non l’avrò mai.”

“Ma sei ancora al liceo, hai il tempo di un’intera esistenza. Lo capisci?”

“Mi sembra poco, e lo perdo, lo perdo con le persone, con gli interessi che poi marciscono e devo buttare, con i progetti che non ho il coraggio di finire, con gli amici che perdo perché tra lo studio e gli impegni non so mai a chi dare i resti…”

“Aspetta, fermati, fermati un attimo. Vuoi sapere come la penso?”

La ragazza ammutolisce, in ascolto.

Due fratelli. Inizio Novembre.

Dopo un paio di sabati passati fuori casa, la sorella trova finalmente un momento per raccontare l’accaduto. Chiama il fratello e si siedono vicini sul lettone alla francese mentre lei, paonazza dall’eccitazione, gli vomita addosso tutte le emozioni della sera prima, senza ritegno, con lo sguardo saettante e incurante dell’espressione mesta del ragazzo.

Appena si ferma a riprendere fiato, lui la scavalca e chiede: “Cosa si prova?”

La ragazza finalmente si ferma ad osservarlo veramente, cogliendo l’amarezza del viso che le sta davanti. Respira, e ricomincia, più lentamente, con più tatto.

E torna improvvisamente a terra. Nel placarsi scema anche il fomento di raccontare l’accaduto, e ricomincia più lentamente, adesso soppesando le parole, attenta ai sentimenti del fratello quanto ai propri, che non vuole siano illusi dalla fretta di trarre conclusioni.

“Dipende. Con quello di prima, con quel ragazzo, non si provava niente, era solo una risposta al mio, e nel corso del tempo ne abbiamo abusato così tanto che non valeva nemmeno un “ti voglio bene””.

Dopo un lungo respiro, la sorella riprende.

“Stavolta è diverso, lo abbiamo aspettato, e stavolta più io che lui. Probabilmente lo sapeva che ce l’avevo sulla punta della lingua da settimane, ma che non l’avrei detto per prima, se non lasciandolo intuire e facendomi interrompere per dirlo poi insieme.” Coglie lo sguardo vacuo del fratello, e inizia quasi a sentirsi in colpa per questo attimo di felicità che gli sbandiera in faccia. Ma viene esortata a continuare con un gesto della mano; lui la conosce, sa che c’è dell’altro. “Lo abbiamo detto una volta, sussurrato, usato con parsimonia come per non sciuparlo. Ce l’avevamo dentro tutti e due, ma preferivamo ripeterci che ci capiamo guardandoci, non c’è bisogno di dirlo. Ma sentirlo davvero, con quella voce che ti piace tanto ed è diversa, solo tua, è un maglione nel freddo d’inverno, rassicurante, spiazzante, immenso. Tanto immenso che fa quasi paura, è importante, perché sa di passato e futuro insieme; letto parimenti con o senza virgola prima di insieme. Si blocca. Ripensa alla pesantezza di quanto le è appena uscito di bocca, un pensiero reso materiale e non più ritirabile in un angolo di cervello. “Allora lo senti la prima volta, e d’istinto faresti dieci passi indietro, se fossi lucida. Ma dei dieci passi non se ne parla, finché si resta abbracciati. E ti senti rispondere con le stesse parole, dopo un attimo di estasiata esitazione, commossa.” “E poi?”

Due ragazzi fissano impacciati un finto soffitto improvvisato; si girano a guardarsi per un tempo interminabile, così interminabile che diventa un fissarsi. Hanno le gambe intrecciate in un abbraccio senza mani, le membra e la psiche indolenzita; si scrutano tenendo i visi distanti, e giocherellano con la punta delle dita puntandole verso l’alto, si sfiorano solo con i polpastrelli come mimando un minuetto per aria, suonandosi una melodia che rimane ancora indistinta.

All’apice della composizione, una voce rompe il silenzio notturno.

Un’altra le fa eco, e le mani si intrecciano.

“E poi?” Le chiede, preso dallo stesso sentimento della sorella, ancora con la mente impregnata dalle sue ultime parole e compassionevolmente partecipe della sua felicità.

“E poi si ride, fino a non capirne più il motivo, fino a perdersi nella stupidità di smielatezze che comprendi solo e soltanto in quel momento, e che stavolta apprezzi, quasi desideri.” Pausa. “Fratellone, non voglio più scappare”

Primi di Marzo, mattina.

I due ragazzi dormono, in quel loro piccolo magico mondo del sabato notte, sereni e appagati dalla lunga nottata che si sono concessi, dal film che hanno visto abbracciati con le guance vicine fino a toccarsi, dal sonno profondo in cui sono crollati, esausti, naso a naso.

Mentre il sole cerca di farsi strada tra le coperte, la ragazza socchiude gli occhi e, come risvegliate dalla luce, le preoccupazioni che sembravano svanite col buio le si parano per un attimo davanti, vivide. Serra di nuovo le palpebre impastate di sonno, se le strofina, le apre completamente e perde con un solo sguardo le fugaci inquietudini mattutine: erano ancora lì, sempre gli stessi nasi.